Psicologo e Psicoterapeuta
nato a: Pistoia
studio: Via Orafi 2 (P.zza Duomo), 51100 Pistoia
cell.: +39 338 4194605e-mail: dott.massimo.fochi@gmail.com
Sito professionale: www.psicologiaepsiche.it
nato a: Pistoia
studio: Via Orafi 2 (P.zza Duomo), 51100 Pistoia
cell.: +39 338 4194605e-mail: dott.massimo.fochi@gmail.com
Sito professionale: www.psicologiaepsiche.it
Le diverse tipologie di malta che permettevano alle tante monadi sociali, di creare una collettività sono state, nel novecento, essenzialmente:
il senso di appartenenza che io chiamo verticale, ovvero l’appartenenza ad una nazione, il nazionalismo;
il senso di appartenenza orizzontale ad una classe, il socialismo;
il senso di appartenenza ad una ecclesia, ad una fede, a valori religiosi e morali che apparivano o che si volevano universali.
Il nostro modello economico e il nostro assetto sociale hanno, in genere, spinto sempre più l’individuo verso la sua personale e solitaria affermazione, sottolineando la dimensione competitiva della dinamica sociale. Questo può piacere o non piacere ma ha avuto ed ha degli indubbi vantaggi, libera grandi risorse intellettuali, sprigionando creatività e impegno. Ovviamente con dei costi. Ogni assetto sociale ne ha!
Nell’età Vittoriana, la società viennese aveva nella repressione più o meno marcata della sessualità il costo prevedibile ed inevitabile per il suo funzionamento e nell’isteria la cifra espressiva, a livello di sofferenza psichica, di quel modello sociale.
Il nostro crescente solipsismo, pur avendo il merito di aver sostanzialmente liberato l’istintualità in generale e quella della donna in particolare, ha l’evidente difetto di far sentire sempre più solo l’individuo, isolato di fronte alla distesa immensa del possibile che gli si dischiude dinnanzi. Ed infatti è la solitudine esistenziale il dolore segreto e inconfessabile del nostro tempo, di cui la depressione rappresenta il correlato in ambito clinico.
Detto tutto questo il problema che mi sembra presentarsi non è il modello liberale in sé, così come sommariamente ho delineato, modello peraltro che già, come abbiamo visto, non è (e non potrebbe essere) privo di difetti e verso il quale, provo una sincera simpatia, ma la sua progressiva corruzione e decadenza.
Ho ascoltato negli anni giovani e adolescenti e ho trovato che molti di loro insistevano su un concetto: quel tale è un personaggio, è un vincente, lui c’è l’ha fatta. A far cosa mi chiedevo? Beh a far soldi e a diventare famoso. Questi i suoi meriti, gli unici dati che sembrano mantenere un senso, un valore residuo.
Dunque è evidente che la strada, il percorso tramite cui si accede ad essi, finisce per essere marginale per una fetta, tristemente consistente, della popolazione. Come ci dicono le storie sconvolgenti di soggetti omicidi rei confessi di genitori, di parenti, di vicini, se ti sei ritagliato la tua fetta di notorietà, essa costituisce un lavacro che monda da ogni colpa! Sei noto, sei famoso dunque.... sei degno di ammirazione e persino di amore. Una follia, un’alterazione completa dei nessi di causa effetto.
Nel nostro sempre più strano mondo valoriale non ricerchiamo più un “sono bravo”, “sono generoso”, “sono un genio”, “sono un eroe” e dunque grazie a questo sono divenuto famoso, fungendo magari da esempio, da stimolo per una sorta di ammirazione e magari di emulazione collettiva…. no no con una specie di cortocircuito tremendo, chi sia diventato in qualche modo famoso, trascurando completamente il “come” ed il “perché”, risulta per questo invidiabile e ammirabile!
La terribile pericolosità che si affianca alle grandi e positive potenzialità della televisione era già stata colta e magistralmente espressa da Karl Popper il quel breve ma estremamente interessante scritto che prese il nome di “Cattiva maestra televisione”. Quei rischi, possono evidentemente essere estesi a tutti i mass media.
Dunque tramite il circuito o meglio il cortocircuito mediatico si percepisce che un “nulla” è diventato famoso, magari con quel po’ di tamarro che non guasta e che contribuisce, in questa logica ridicola, alla creazione del così detto “personaggio”. Ma se quel “nulla” ce l’ha fatta allora tutti i nulla in circolazione, che non vogliono saperne di sottostare alle dure leggi della competizione sociale, alla necessità dello sforzo, dello studio, dell’impegno, del lavoro intenso, ma che al contempo non vogliono saperne di continuare a sentirsi tappezzeria, che sono narcisisticamente convinti di avere il diritto ad elevarsi, anche senza alcun merito, sopra gli altri, allora tutti loro finiscono per ammirare il loro idolo, quel “nulla”, che senza nessuna dote particolare, senza talento, (quindi somigliando loro terribilmente) ce l’ha fatta.
Quel “nulla” è la loro speranza, la loro garanzia che la fede, nella possibilità velleitaria del loro prossimo riscatto, non è mal riposta.
Se passa questo messaggio, ragazzi siamo finiti. La storia e ancor più il mondo globalizzato non fanno sconti, non permettono scorciatoie gossippare per affermarsi. Dobbiamo accettare la sfida, dura ma esaltante, che il nostro tempo ci propone e abbiamo solo due possibilità o la vinciamo declinando con volontà e impegno, all’interno del mondo del lavoro, della scienza, della ricerca, le nostre caratteristiche positive, la nostra intelligenza, la nostra creatività che davvero non sono seconde a nessuno o le nuove, motivate e instancabili realtà che stanno sorgendo ad oriente (India, Cina, Corea ecc.), ci spazzeranno via senza pietà!
Padre e autorità
Il problema del rapporto con l’autorità rimanda alla figura del padre e a ciò che resta del “nome del padre”. È davvero “quello che resta del padre” un problema centrale del nostro tempo, un tempo in cui la sua potenza simbolica è evaporata e assistiamo attoniti alla dissoluzione di questa figura, depositaria e custode del grande potere evolutivo del “no”.
Ma per comprendere il rapporto con l’autorità suggerirei di fare un passo avanti e partire dal tentativo di capire qualcosa di più, in chiave psicoanalitica, sul tema del desiderio e su come esso si formi e si strutturi dentro di noi.
Sappiamo che non c’è vita umana se non oltrepassando la dimensione incestuosa del desiderio.
Il dissolversi della figura del padre ci apre ad una delle problematiche psicologiche centrali del nostro tempo: cosa resta del padre?
Per Freud il padre è essenzialmente il simbolo della Legge e introduce l’esperienza dell’ “impossibile” nell’umano.
Dobbiamo cioè accettare, per crescere, che ci sono cose non ammesse e non ammissibili.
Lo strutturarsi dell’Edipo costituisce la legge prima e originaria, che fonda la necessità delle diverse strutture giuridiche che caratterizzano l’umano.
In altri termini il figlio deve accettare i limiti della condizione umana. “Tu non poi sapere tutto, non puoi godere di tutto, non puoi avere tutto, non devi nemmeno ritenere di essere tutto”.
Questa è la potenza traumatica e benefica della Legge che, introducendo l’impossibile nell’umano, rende possibile il desiderio nella sua dimensione generativa e non mortifera. Attraverso la castrazione simbolica si istituisce il limite, la salutare riduzione dell’onnipotenza originaria.
Il padre dopo aver stabilito il limite regala la possibilità di un appagamento pieno, completo e superiore perché, grazie alla sua valenza simbolica, riesce a tenere insieme la legge e il desiderio.
Se ciò non accade abbiamo il trionfo della dimensione mortifera e non generativa di un principio di piacere che non sa diventare principio di realtà.
Vittima di un desiderio disordinato e scomposto, senza l’ideale che protegge, che regala una prospettiva, la vita si disgiunge dal senso e la depressione, il senso di vuoto trionfano drammaticamente.
La legge che si stacchi dal desiderio fino a soffocarlo è prevaricazione, mortificazione, prigione moralistica e, laddove l’istanza proibitrice prevalga insensatamente, abbiamo l’isteria e tutte le patologie connesse alla rimozione eccessiva.
In questo caso l’autorità si è fatta smodato e insensato autoritarismo, negazione del fluire della vita e di ogni dimensione dionisiaca dell’essere. È proprio questo lo scenario che Freud rinvenne nell’inconscio delle isteriche dell’età Vittoriana.
Ma anche il desiderio che si stacchi dalla legge non va incontro ad un destino migliore facendo naufragare l’individuo nell’insensatezza del vivere. Quando ciò accade, anche se si dovesse riuscire a sottrarsi alla logica mortale degli eccessi e delle sostanze, si scivolerebbe inevitabilmente verso una dimensione tragicamente nichilista.
Oggi è il tempo del trionfo di questo secondo eccesso, e, scomparsa o quasi l’isteria dai nostri scenari terapeutici, i giovani, gli adolescenti si presentano in terapia svuotati di vita, di energia vitale, infiacchiti, dicendo: “La vita non ha senso; non ho voglia di vivere, di fare, di lottare, insomma la vita è una merda”!
Correlativamente da molti anni assistiamo ad una nuova dimensione genitoriale, che sempre più frequentemente ci troviamo ad incontrare anche nel mondo della scuola.
Sempre più spesso si assiste ad una fusione simbiotica non interrotta. Il figlio non è riconosciuto veramente nella sua alterità, e dunque ogni conflitto che inneschi tensioni e ostacoli rispetto ai suoi eventuali comportamenti inappropriati, suona nell’assordante campana simbiotica, come un’offesa che il genitore rifiuta perchè vive e sente come rivolta a se stesso.
Troppo spesso i genitori non sanno situarsi in sintonia col ruolo correttivo e talora punitivo che può esercitare una qualunque autorità esterna alla famiglia accettando tutto ciò come una legittima e utile continuazione dei loro compiti educativi, ma, al contrario, lo sentono come un nemico da affrontare e combattere.
L’autorità esterna che richiama, disapprova e punisce, infligge una intollerabile mutilazione narcisistica a questo modello di famiglia che contiene germi di pericolosa e grave asocialità.
Nessun ridimensionamento, nessun fallimento è ammissibile e per salvare lo status del figlio si può giungere a fantasiose narrazioni che ne fanno un martire, una vittima che magari nasconde, nelle sue profondità, un genio incompreso.
Salta il patto generazionale e molto spesso i docenti sono lasciati soli nella loro missione educativa che assomma alla bassa valutazione che la politica, al di là delle dichiarazioni di facciata, riserva loro, anche l’ostilità di genitori che, avendo abdicato al ruolo complesso e faticoso di fondere legge e desiderio, spossati dalle richieste sempre più elevate della società, preferiscono rapportarsi sempre più debolmente con le richieste dei figli, ritenendo erroneamente di accondiscendere per amore.
La fusione simbiotica e aconflittuale col figlio, in questa declinazione deludentemente narcisistica dell’amore genitoriale, non è amore che feconda e fa crescere, ma terra arida e secca su cui si alzeranno fusti sempre più deboli, imbelli, malati, incapaci di godere delle fatiche e delle vittorie che la vita ci può regalare.
Illuminante un passo di una delle 10 omelie scritte da Sant’Agostino a commento della I lettera di San Giovanni:
“Non credere allora di amare il tuo servo, per il fatto che non lo percuoti; oppure che ami tuo figlio, per il fatto che non lo castighi; o che ami il tuo vicino allorquando non lo rimproveri; questa non è carità, ma trascuratezza.”